Il quotidiano Ultimo uomo dedica un ritratto coinvolgente a Nikola Kalinic, che qui riproponiamo parzialmente.
Della stessa materia di cui è fatto il pallone
Scrivere di Nikola Kalinic non è semplice, e farlo dopo l’attenzione che gli si è riversata addosso senza per forza doversi avventurare in un’esegesi non facilita il compito: per costruire le statue bisognerebbe sempre saper scegliere la lega metallica giusta per l’occasione, e l’oro ha il difetto di ossidarsi presto (oltre che di andare sempre troppo per la maggiore, perché è il metallo dell’entusiasmo).
Un elemento che emerge in Kalinic è la pietrosità della sua figura. Non sappiamo nulla della sua vita prima che diventasse un calciatore professionista. Non sembra avere una storia personale fatta di drama, di esperienze lacrimevoli, di infanzia bellica: nel ’91, quando Spalato veniva bombardata, aveva 3 anni, e non è neppure detto che in quegli anni vivesse a Spalato, a Salona, non ha mai raccontato che cosa facessero i suoi genitori, o lui, negli anni ’90, mentre la Jugoslavia si dissolveva: ha osservato Suker nei Mondiali francesi del ’98? Sognava di ispirarsi a lui?
Il problema si acuisce ulteriormente dal momento che non sappiamo niente della sua esperienza fuori dal campo nemmeno dopo che è diventato un calciatore professionista. Se da una parte l’assoluta mancanza di appigli al mondo reale potrebbe essere eloquente della sua riservatezza, o della sua ordinarietà, o forse semplicemente del fatto che in Inghilterra (dove ha giocato con il Blackburn) e in Ucraina (dove ha difeso i colori del Dnipro) a nessuno interessasse conoscere questi aspetti, dall’altra rende Kalinic interessante nella misura in cui gli unici strumenti interpretativi di cui disponiamo per decodificare chi è e chi non è sono quelli che ci fornisce quando indossa una maglia da gioco. È come se Kalinic fosse fatto della stessa materia di cui è fatto il pallone.