La «squadra O» è l’ultimo esperimento dell’Italia del calcio. La definizione è improvvisata, però rende l’idea: l’Olbia è (più o meno…) una squadra B nella nazione che non vuole le squadre B. I dirigenti italiani parlano da anni di seconde squadre, di gran moda dal 2008. Quell’anno il Barcellona cercava un allenatore e pensò che quel Guardiola, tecnico della squadra B, poteva essere un’idea. Pep sfidò Laporta – «non avrai… gli attributi per farlo» -, il presi accettò il rischio e stravinse. Funziona così in Spagna, in Olanda, in Portogallo, con meccanismo particolare in Francia: i club principali hanno una seconda squadra, di solito in seconda o terza serie, in cui far giocare chi finisce le giovanili. Il vantaggio è il controllo: nei momenti di difficoltà, un club «normale» spesso mette in panchina i ragazzi, cosa che al Barça B ovviamente non succede.
UN TIR IN CITTÀ — Il modello in Italia non è mai passato, ma il Cagliari di Tommaso Giulini ha lasciato stare i regolamenti e creato una partnership con l’Olbia. Il presidente è Alessandro Marino, ex membro del Cda del Cagliari. Il direttore sportivo è Pierluigi Carta, che aveva lo stesso ruolo nelle giovanili rossoblù. L’allenatore è Michele Mignani, che nel 2013-14 ha lavorato a Siena con Mario Beretta, coordinatore dei ragazzi del Cagliari. Il responsabile delle giovanili è Ruggero Radice, figlio di un ex rossoblù come Gigi, l’allenatore degli Allievi è Simone Tiribocchi, ex giocatore di Beretta. Insomma, i programmi sono comuni. L’Olbia in estate è stato ripescato in Lega Pro e il passaggio ha fatto scattare il piano perché la terza serie, a differenza della D, permette ai giovani di fare esperienza a buon livello. In più, i ragazzi che a Cagliari avrebbero uno spazio limitato – oppure a un livello non adatto – a Olbia possono giocare il campionato Berretti.
IL 10+5 — Fin qui, la teoria. La pratica dice che l’esperimento non è cominciato male. L’Olbia in Lega Pro ha 10 giocatori prestati dal Cagliari: Montaperto, Carboni, Cotali, Pinna, Russu, Muroni, Murgia, Auriemma, Scanu e Capello. In più, Cossu, Francesco Pisano, Ragatzu, Dametto e Piredda, tutti ex Cagliari. Cossu, che ha rischiato di giocare il Mondiale 2010 con l’Italia, è ovviamente il più conosciuto, ma quello che conta è il quadro. Molti dei ragazzi stanno avendo minuti e domenica, contro il Livorno, allo stadio c’erano 1.700 spettatori paganti: «Siamo molto contenti, Olbia ha già risposto – dice Alessandro Marino, il presidente -. In ogni caso, vogliamo crescere ancora». Il progetto ovviamente può fallire e rischia di scontrarsi con le ambizioni dell’Olbia, società nata nel 1905, legata a un territorio importante come il Nord-Est della Sardegna. Però insomma, l’idea merita fiducia e, almeno in Italia, va fuori dal coro. Lazio e Salernitana hanno una ovvia relazione, che però dal punto di vista tecnico è meno stretta. L’Inter ha provato a creare un asse con il Prato, soluzione che ha pregi e difetti. Il Cagliari probabilmente è andato un passo più in là: con una forzatura, siamo al tentativo di una Sardegna modello Paesi Baschi.
IL TERRITORIO — Il Cagliari infatti in Sardegna ha tre centri di formazione e, assieme all’Olbia, gestisce una quarantina di società affiliate: lì i bambini si allenano con le tabelle decise nel capoluogo. L’idea è costruire un grande gruppo di lavoro regionale, in cui i ragazzi si spostano e cambiano squadra all’interno di un unico laboratorio di calcio: identità territoriale. La Sardegna non è certo la regione che produce più giocatori in Italia e la «squadra O» anche qui può provare a dare una mano. Una sola cosa però è improbabile: uno dei centri di formazione è ad Alghero, ma la rivalità con la zona di Sassari non si cancella con un progetto. Sardegna unita sì, ma con una eccezione.
Gazzetta.it