In un’epoca di globalizzazione ed interdipendenza, come quella che stiamo vivendo anche e soprattutto nel mondo del pallone, porre l’attenzione sulla nazionalità degli interpreti può forse apparire come un’irrilevante sottigliezza, forse addirittura anacronistica. Chiudersi entro i propri confini evitando ogni contaminazione esterna, nel tentativo di invertire un trend ormai in atto da anni che vede il proliferare di giocatori provenienti da ogni angolo del globo talvolta a scapito dei giovani italiani, sembra alquanto impossibile se non addirittura insensato. Tuttavia, giusto per osservare la realtà da un’altra prospettiva, basta spostare l’attenzione sulle panchine per vedere che forse la provenienza, o almeno le esperienze maturate in passato, hanno un peso specifico tutt’altro che irrilevante. Se gli allenatori infatti passano, spesso forse finendo senza remore sul banco degli imputati per poi essere allontanati con troppa leggerezza, sono molti anche quelli che, varcando i confini, si fermano senza lasciare grosse tracce per poi andarsene in tempi relativamente brevi, il più delle volte non per loro espressa volontà. Senza sforzarsi troppo di riflettere sembra di ripercorrere in breve la parabola discendente dell’ormai ex allenatore dell’Inter, Frank De Boer, arrivato in Italia sull’onda dei successi colti in patria sulla panchina dell’Ajax per poi sbriciolarsi al primo impatto con un campionato estremamente insidioso, soprattutto sul piano tattico, come la nostra Serie A. Come la storia insegna, De Boer è solo l’ultimo di una lunga serie di tecnici approdati nel nostro paese sotto i migliori auspici salvo poi fallire miseramente di fronte alle dinamiche di un campionato, storicamente fra i più tattici d’Europa, che non perdona coloro che malvolentieri accettano di modificare il loro credo calcistico per plasmarlo sulla base delle richieste che la Serie A impone. Andando a memoria, gli allenatori stranieri capaci prima di imporre la loro idea di calcio e successivamente di ottenere risultati convincenti, negli ultimi trent’anni, si possono contare sulle dita. Infatti, per non andare troppo a ritroso e chiamare in causa i successi di Nils Liedholm, partendo dallo scudetto della Sampdoria, datato 1991, sotto la guida di Boskov, fino ad arrivare al triplete nerazzurro con il condottiero Mourinho, non si ricordano altri tecnici provenienti dall’estero capaci di lasciare un’impronta vincente nel nostro campionato. Solo per citarne alcuni potremmo fare i nomi dell’uruguaiano Tabarez sulla panchina del Milan, dell’ex viola Passarella che resistette appena un mese sulla panchina del Parma, Terim, capace di condurre la Fiorentina fino alla finale dell’ultima Coppa Italia finita nella bacheca viola ma nonostante questo esonerato sia dalla Fiorentina che dal Milan, poi i vari Cuper, Luis Enrique e Benitez per arrivare ai giorni nostri. Tutti allenatori capaci, sia prima che dopo, di lasciare il segno, ed in alcuni casi anche di conquistare vittorie significative, in ognuna delle loro esperienze, ovunque appunto, tranne che in Italia. Tuttavia in questo scenario che sembra privilegiare esclusivamente gli allenatori italiani, spesso chiamati a riportare l’ordine dopo esperienze destabilizzanti, come dimostra la scelta dell’Inter che ha deciso di affidarsi all’ex viola Pioli, ci sono anche delle piacevoli eccezioni che in linea di massima riguardano quei tecnici che, al momento del loro arrivo, vantano già una discreta conoscenza del panorama calcistico italiano, spesso frutto di esperienze passate come giocatori. Il caso emblematico è proprio quello dell’allenatore della Fiorentina, Paulo Sousa, portoghese di nascita ma cittadino del mondo con esperienze, sia come calciatore che come allenatore, nelle più variegate realtà europee ma soprattutto in Italia, con le maglie di Juventus, Parma ed Inter. Oltre alla pregressa esperienza maturata nel corso dell’epoca aurea del calcio italiano, ossia gli anni ’90, giocano a favore del tecnico portoghese anche la grande duttilità, lo spirito di adattamento e la dedizione al lavoro finalizzata a modellare le proprie idee alla realtà calcistica che si trova ad affrontare, talvolta anche con la disponibilità a rinunciare ai propri dettami e dogmi tattici, qualità, quest’ultima, indispensabile per ogni allenatore, soprattutto in campionato denso di variabili come quello italiano. In ultima istanza, se sembra piuttosto improbabile chiudersi in uno sconsiderato isolazionismo calcistico, altrettanto improbabile sembra che tecnici provenienti da realtà profondamente diverse continuino a dimostrarsi così restii a rinunciare alle idee che, pur avendo fatto le loro fortune all’estero, impediscono loro un pieno adattamento alla realtà italiana, come dimostrato dalla recente esperienza nerazzurra di De Boer.
Gianmarco Biagioni