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Piccini attacca: “Con Gasperini all’Atalanta mi hanno affossato, trattato non come essere umano”

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Piccini attacca: “Con Gasperini all’Atalanta mi hanno affossato, trattato non come essere umano”

Redazione

8 Gennaio · 13:12

Aggiornamento: 8 Gennaio 2022 · 13:12

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Cristiano Piccini ha parlato in esclusiva al sito di Gianluca Di Marzio, il classe 92 nato a Firenze e cresciuto nella Fiorentina sin da ragazzino e adesso giocatore del Valencia si è raccontato, queste le sue parole:

“Rottura della rotula? La prima cosa che ricordo di quel 28 agosto 2019 è quando alzo la testa da terra e vedo i miei compagni con le mani sul volto, disperati. Uno di loro mi abbraccia, mi butta giù per non farmi vedere cos’era successo e mi dice: ‘Hermano, ne usciremo insieme, tranquillo’. Io sul momento non capivo, poi mi sono visto il ginocchio: non c’era più nulla, un pezzo di rotula era sul quadricipite, un altro sulla tibia”. Fa una pausa. “Lì ho detto: ca**o”. Un’altra pausa, sospira. “Questa è dura”.

“Oggi sto bene, sto alla grande, l’infortunio è superato al 100%”. Ma il percorso per arrivare qui è stato insostenibile, lungo due interminabili anni. “All’inizio mi hanno nascosto la gravità per proteggermi, ma questo infortunio era per ritirarsi, per ritirarsi”, ripete. “Solo dopo qualche mese il chirurgo mi disse che non avevano mai visto un infortunio così in un calciatore. Tuttalpiù in motociclisti che erano caduti di ginocchio. Era gravissimo”.

Per quasi due anni, Piccini ha vissuto costantemente il giorno della marmotta. Sveglia alle 6 per il primo allenamento, alle 7 via al centro sportivo per la fisioterapia, poi un’altra sessione d’allenamento. Pranzo, un’ora di riposo, di nuovo la fisioterapia per altre quattro ore e a dormire. Ancora e ancora. “Ero entrato in un vortice di infelicità, insoddisfazione. Non vivevo più, vivevo per recuperare”. “Alla fine sono qua di nuovo”, aggiunge, come se tornare in campo fosse un fatto di vita o di morte. “Un infortunio non può ritirarmi dal calcio, sono io a decidere quando smettere”. La sensazione è che la forza del suo sguardo potrebbe spaccare lo schermo da un momento all’altro.

Fra una sveglia all’alba e l’altra, però, l’infortunio stava per avere la meglio. “Soprattutto dopo un anno e mezzo. Vedevo che stavo rientrando, ma poi non riuscivo a reggere i carichi di lavoro. Ogni volta che facevo una cosa in più mi si gonfiava il ginocchio, e lì dovevo fermarmi un altro mese. Succede una volta e lo accetti, la seconda e lo accetti, alla terza capisci che c’è qualcosa che non va. Il mio ginocchio non ce la faceva. Io che ca**o devo fare più che lavorare tutti i giorni? Non sapevo dove andare a battere il capo. Per mesi ho pensato che fosse il caso di smettere”.

A cavallo di quel periodo c’è anche l’esperienza con l’Atalanta. Un prestito cominciato all’inizio della scorsa stagione e terminato prematuramente, con appena 59’ giocati. Piccini non usa parole tenere per ricordare quei sei mesi. Racconta che Gasperini lo volle a tutti i costi, nonostante non giocasse da un anno e il calciatore stesso non si aspettasse di superare le visite mediche: “Non riuscivo a saltare sulla gamba destra”.

“Ma loro mi hanno rassicurato dicendomi che con un mese di lavoro a parte sarei rientrato. Il primo giorno mi mettono subito a fare lavoro in gruppo, mattina e pomeriggio. Quarto giorno, ginocchio gonfio come un pallone. Ero zoppo. Lo mostro all’allenatore e mi dice che non potevo allenarmi, che avevano sbagliato a prendermi. Io venivo da un infortunio gravissimo, avevo bisogno di sentirmi aiutato, e invece mi hanno affossato. Dopo una settimana ero già fuori rosa per un motivo per cui io non potevo fare nulla”.

Il racconto continua e lo fa anche con più forza e con accuse dirette (non su Gasperini: “contro di lui non ho assolutamente nulla”), che meriterebbero sedi più opportune per essere discusse. “Come essere umano venire trattato così è la cosa peggiore che ho sofferto in tutta la carriera, peggio dell’infortunio. Quasi cadevo in depressione”, conclude.

Mentre meditava su un possibile ritiro, però, Piccini aveva già immaginato la sua vita oltre il calcio, il suo piano B. “A tre settimane dall’operazione, alle quattro di notte, preso dall’effetto della morfina ero lì che volavo sul letto e mi si è accesa la lampadina: avrei creato un centro commerciale, ma tutto nella realtà virtuale”. Così ha svegliato di soprassalto la moglie, le ha raccontato l’idea che avrebbe affinato con degli esperti e creato Rine, la sua azienda che oggi “sta avendo i primi successi”, fra visori e NFT. Insomma, Zuckerberg, complimenti per il metaverso, ma l’idea era di Piccini. “Ora va di moda, ma io c’ero da prima”, sottolinea serio.

Per tornare a “sentirsi un calciatore”, però, non c’è stato bisogno di migrare ad una realtà parallela. Se nelle precedenti due stagioni aveva giocato solo 123’, in questa è già a quota 316’ in sette incontri. Nel mezzo, anche un gol, quello contro l’Elche, che ha segnato la sua “liberazione” dalle catene dell’infortunio. I giorni successivi, un po’ meno. Lui ci scherza su: “Ovviamente sono stati pieni di chiamate o rotture di scatole. Quando le cose vanno male non ti caca nessuno, ma appena sei sulla cresta dell’onda tutti amici e parenti”. Scherza, sì, ma manco troppo. È orgoglioso Piccini, se non si fosse capito.

Fra le chiamate, anche quelle di qualche squadra interessata, che non nomina. Il suo contratto scade a fine stagione e, gli facciamo notare, può firmare con chi vuole. “Posso firmare con chi mi vuole”, corregge. Effettivamente, lui rinnoverebbe volentieri con il Valencia: “Sarebbe il mio obiettivo, ma in società non hanno queste intenzioni. Dovrò guardarmi intorno, a malincuore, perché Valencia e casa mia e qui tornerò dopo il calcio”.

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