
Francesco Toldo da qualche tempo ha deciso di allontanarsi dal calcio, un mondo che «mi ha dato tutto ma che non mi manca».
Il portierone padovano, oggi imprenditore, che in carriera ha conquistato 5 scudetti, una Champions League, 5 Coppe Italia, 4 Supercoppa si racconta in un’intervista che ripercorre la sua gioventù nei campi di periferia («Ci sembravano tutti il Bernabeu»), il passaggio tra i professionisti, la scalata con la maglia azzurra, l’esplosione alla Fiorentina (266 presenze) e i successi all’Inter fino alla conquista del Triplete. Ha parlato al Corriere Veneto
Toldo, che ricordi ha della sua infanzia nella prima periferia di Padova?
«Bellissimi. Erano gli anni ’70 e già a 5 anni per i bambini era obbligatorio giocare con un pallone lungo le strade e i marciapiedi. Con lo stesso gruppo di ragazzi si frequentavano asilo, elementari e medie, giocando nelle squadre giovanili locali. Erano i tempi dell’Usma Caselle. In una trentina siamo arrivati in blocco fino ai Giovanissimi. Ci spostavamo in bicicletta e vivevamo l’ambiente sano dell’oratorio. Ci allenavamo due volte alla settimana. Alla domenica c’era la partita e il resto dei giorni era calcio in strada. Andavi a casa alle 8 di sera quando ti prendeva la fame. Sarebbe bello che i giovani di oggi potessero rivivere quelle sensazioni».
Come ha scelto di giocare tra i pali?
«In porta ho iniziato dopo, prima ho fatto il terzino, il mediano e il centroavanti. Sono esploso tardi fisicamente, ero lento e non avevo voglia di correre. Un giorno, verso dicembre, mi misi in porta. Nevicava, mi divertii talmente tanto a buttarmi su quel manto candido per cercare di prendere il pallone che non mi sono più mosso».
La svolta come avvenne?
«Nell’Usma ho avuto la fortuna di trovare Giovanni De Zan, che è una leggenda in paese ed è stato il mio primo allenatore. Da lui è partita una segnalazione a Giancarlo Caporello, l’allora mister dei portieri del Montebelluna che tutt’ora allena a 80 anni. Quelli sono stati i periodi più duri ma più formativi. Abitavo ancora a Caselle di Selvazzano, frequentavo l‘alberghiero ad Abano Terme e facevo su e giù fino a Montebelluna. Lui mi ha premesso di imparare certi segreti che stanno alla base di un ruolo così particolare».
Aneddoti di quegli anni?
«All’Usma ricordo i tornei estivi, ogni partita era un derby con un campanilismo sfrenato. Giocavamo tutte le gare come finali. I quattro scalini pieni di genitori sembravano il Bernabeu».
Il salto nel professionismo com’è stato?
«Chi riesce a fare la gavetta uno step alla volta nelle categorie giovanili si forma al meglio. Ho completato tutta la trafila dal Milan primavera, al Trento in C2, al Ravenna in C1, poi in B con la Fiorentina e infine sono approdato in serie A. Ogni categoria ha le sue difficoltà. Bisogna adeguarsi in fretta se hai talento e base di sacrificio. Non mi interessava il guadagno e di anno in anno ho fatto un piccolo salto in avanti. Così senza accorgermene sono arrivate le soddisfazioni».
Nella sua lunga carriera tra le big ha militato solo alla Fiorentina e all’Inter, come mai?
«Era normale a quei tempi. I portieri se erano forti non venivano spostati. La società in primis sceglieva l’allenatore e poi il portiere. Della mia generazione in tanti hanno militato in poche squadre. Penso a Bucci, Peruzzi o Pagliuca. I tifosi si identificavano in noi. Se l’estremo difensore cambia spesso vuol dire che non c’è fiducia in lui».
A Firenze (tra il 1993 e il 2001) lei ha vissuto due epoche, ce le descrive?
«La prima difficoltosa con la retrocessione in B, poi, quando è arrivato mister Ranieri, è riuscito a ricostruire tutto partendo dai giovani. Lui ha trascorso quattro anni in viola, raggiungendo successi mai ottenuti prima».
Che tipo è Claudio Ranieri?
«In quel periodo era in rampa di lancio. Una persona educata e professionale che cercava di capire le situazioni e difendeva sempre la squadra dalle critiche del pubblico severo. Arrivavi a fine sessione distrutto. Ma di quel periodo c’è soprattutto un compagno che ricordo più di tutti».
Chi?
«Omar Gabriel Batistuta. Terminato l’allenamento noi due continuavamo per un’ora al buio. Lui calciava le punizioni, io gliele paravo e i tifosi venivano a vederci solo per quel momento. Li mandavamo in visibilio. Siamo cresciuti entrambi. E Bati-gol è stato un grandissimo capitano».
In quegli anni entra stabilmente nel giro della nazionale maggiore, prima l’Under 21, per lei cosa ha significato?
«Mi sono inserito in corsa con Stefano Visi e lui era titolare, poi hanno voluto cambiare. Ho cominciato in maniera spensierata. Era il 1994 con Cesare Maldini in panchina. Lui ha costruito tre cicli, vincendoli tutti. Per noi è stato quasi un padre, l’emblema di chi fa crescere bene i giovani e li sa lanciare nel mondo dei grandi. Un allevatore di talenti. Era simpatico, ti lasciava ridere e scherzare. Mitici i suoi tranelli col vino a tavola».
Dopo Ranieri in Viola si sono succeduti diversi tecnici, ce li descrive?
«Alberto Malesani ha fatto solo un’apparizione. L’ho conosciuto poco. Fatih Terim che non era adatto al calcio italiano e arrivano gli anni di Giovanni Trapattoni con il quale abbiamo fatto due belle stagioni. La società poi scelse Roberto Mancini. Con lui abbiamo vinto la Coppa Italia. Le sue capacità si vedevano subito, insegna tutt’ora molto bene a giocare a calcio»
E adesso cosa fa Francesco Toldo?
«Col calcio ho chiuso, mi dedico alla famiglia. Vivo a Milano, faccio il papà e gestisco quello che lo sport mi ha donato. A Padova costruisco case, con un criterio di rispetto e sostenibilità. Il mondo del pallone non mi manca, ho vissuto la mia epoca e va bene così. Lo seguo distrattamente ormai».
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