Vittorio Cecchi Gori, 83 anni – gli occhi vivaci di un uomo che delle discese ardite e delle risalite ha fatto, spesso suo malgrado, una filosofia di vita – accetta di parlare con La Nazione. Seduto in poltrona, un mega schermo davanti, la stufa che macina calore e decibel soffusi, una bombola per l’ossigeno, un bicchier d’acqua e una fetta di panettone (“Costa dieci euro ma va comprato prima di Natale perché è più buono”). Ecco qualche estratto delle sue parole a La Nazione.
Ricordi dei genitori?
“Erano giovanissimi. Eccezionali. Mio padre poi, è cresciuto con due signore. Era orfano. Io sono figlio del dopoguerra. No, che dico? Della guerra: sono del ’42”.
Come si erano conosciuti?
“A un Fiorentina-Juventus. Erano entrambi tifosi. Ma quando abbiamo preso la società, nel 1990, il mio babbo ha iniziato a star male. Poi è morto. Proprio nell’anno della serie B”.
Ve la vendette Pontello.
“Venne qui a Roma. Il babbo gli disse ’Io più di dieci miliardi non te li do’. Lui insisteva per undici. Lo convinsi io, mio padre, a metterci il miliardo in più”.
