Un arrivo a sorpresa, nel cuore dell’estate. Una trattativa lampo e la domanda che rimbalzava di tifoso in tifoso. «Ma perché proprio la Fiorentina?». David de Gea e la sua storia, una carriera lunga e costellata di trofei, record (545 presenze col Manchester United, 190 di queste tenendo la porta inviolata), imprese e fenomeni coi quali ha condiviso sogni e spogliatoi. Da Cristiano Ronaldo a Rooney, passando per Lukaku, Ibrahimovic, Van Persie. E poi gli allenatori, su tutti Sir Alex Ferguson. L’anno di stop volontario aveva alimentato alcuni dubbi sulla sua condizione fisica. Soltanto il tempo di esordire e di rimettersi i guanti e lo spagnolo torna a splendere, accendendo su di sé riflettori, interessi, ammirazione. Il talento del campione, che tale è rimasto.
Prodezze autentiche, in Serie A e in Conference League. I playoff, i due rigori parati al Milan, nove volte la porta inviolata, quei lanci perfetti dalla distanza, il feeling con Martinelli e la mentalità al servizio dei compagni che ha inciso, eccome, sul rendimento della Fiorentina in lotta per un posto europeo e che sogna, finalmente, di poter alzare un trofeo. Domenica i viola torneranno al Franchi per sfidare l’Atalanta. Ma il pensiero corre subito al trionfo prima della sosta, quello contro la Juventus che ha spinto la dirigenza bianconera a esonerare Thiago Motta. Il tutto, sotto gli occhi degli ex Vlahovic e Nico Gonzalez.
«Avevo capito fin dal primo giorno l’importanza di questa gara. Stadio pieno, tre a zero, brividi. Adesso vogliamo spingerci più in alto possibile, centrare l’Europa. E provare a vincere la Conference». Idee chiare, mentalità da leader. Ma perché, dopo un anno sabbatico, ha scelto proprio Firenze? «La città è splendida, la gente meravigliosa. Il club ha una storia unica, il Franchi mi emoziona, lo trovo bellissimo e molto caldo. Ho subito detto di sì. E poi, il campionato italiano mi ha sempre attirato. Adoro l’Italia. Lo stile di vita, la lingua, il clima, il cibo».
E allora, perché si era fermato una volta raggiunto il top? «Dopo aver giocato per così tanti anni ad altissimi livelli volevo soltanto stare un po’ tranquillo. Forse è stato il periodo più bello della mia vita. Ho potuto vivere intensamente la famiglia, mia moglie Edurne, mia figlia Yanay, ho potuto vedere più spesso quegli amici che non riuscivo a frequentare così tanto negli ultimi quindici anni. Mi spostavo, da Madrid a Manchester, e continuavo ad allenare testa e fisico». Magari dedicandosi anche alla musica, per David fondamentale. Ascolta un po’ di tutto, compresa quella italiana, ma adora heavy metal, progressive e nu metal. Gli Slipknot, gli Avenged Sevenfold, i System of a Down.
A Firenze non solo per tornare protagonista in campo ma anche all’interno dello spogliatoio: «Dopo una sconfitta non voglio parlare con nessuno. Silenzio e riflessione finché non torno a casa. Invece in passato ho visto compagni ai quali non fregava niente, ridere e scherzare senza pensare ai tifosi e ai loro sacrifici. È la mia mentalità e anche a Firenze lo ribadisco: vincere, vincere, solo vincere. Mi piace tutto del progetto Fiorentina. Dal Viola Park, dove ho anche vissuto i primi due mesi, fino al legame col presidente Commisso e con Raffaele Palladino. Hanno ambizione e prospettiva».
De Gea ha firmato un annuale con opzione per un altro anno e raddoppio automatico dell’ingaggio fino al 2.4 milioni di euro. Dunque, rinnoverà? «Sono contento a Firenze, sono molto contento alla Fiorentina, prima però conta terminare al meglio la stagione». Tradotto: nessun problema ma ci sono ancora nove gare di campionato, una finale di Conference da conquistare e un piazzamento europeo che potrebbe fare la differenza nei suoi ragionamenti finali.
A Firenze, però, si trova benissimo. «Mi godo la città, qui vivo alla grande e adoro rimanere in casa. Riposo, leggo e guardo gli anime che sono una grande passione, gioco a Rainbow Six alla Play, giro la città». Quando può si ferma a guardare i più giovani al Viola Park, d’altronde fin da piccolo ha studiato gli altri da dietro una rete: «So cosa sia la competizione interna. Ho avuto tanti portieri fortissimi come compagni di squadra e con tutti ho cercato un rapporto di amicizia. Mi spiace quando un mio compagno compie un errore ma anche se accade a un altro portiere di un’altra squadra. Conosco la solitudine dei numeri uno, il portiere è differente in tutto».
Tra i giovani più promettenti c’è certamente Tommaso Martinelli (classe 2006) nato e cresciuto col viola addosso e che adesso può allenarsi col suo mito David. «Un ragazzo meraviglioso, un portiere davvero forte. Mi piace quando un giovane è umile, ti rispetta, ti ascolta, cerca di imparare, ti chiede consigli. Ci parlo spesso, lo osservo e lui mi osserva. Se continua così sono sicuro sarà il portiere viola dei prossimi anni. È importante l’identità: conosce il club, lo sente più degli altri, comprende la storia».
Non banale il concetto di identità in un mondo, quello del calcio, sempre più incline al denaro: «Non è facile far comprendere ai tifosi che non si possa rimanere sempre nello stesso club per tanti anni. Adesso ci sono molti altri aspetti rispetto a prima, come le ambizioni personali. Prima i senatori venivano rispettati dai più giovani, adesso può capitare che un ragazzino quasi non ti saluti. È cambiata la vita, non solo il calcio».
A volte fermarsi a riflettere può aiutare. A volte, invece, si è costretti. Come accaduto a Edoardo Bove, colpito da malore a dicembre nel corso della sfida con l’Inter: l’impianto del defibrillatore sottocutaneo e un futuro da riscrivere. «È stata durissima. Edo è un ragazzo meraviglioso, ci siamo sentiti spesso quando era in ospedale. Ci ha tranquillizzati e adesso fortunatamente sta bene. Spero possa continuare a giocare a calcio, il suo grande amore, ma quel che conta è che stia bene».
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