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Spalletti: “Ho imparato più nelle giovanili dell’Avane che nella Fiorentina, a Firenze vincevamo sempre”

Firenze, stadio Franchi, 24.02.2019, Fiorentina-Inter, foto Fiorenzo Sernacchioli. Copyright Labaroviola.com

Rassegna Stampa

Spalletti: “Ho imparato più nelle giovanili dell’Avane che nella Fiorentina, a Firenze vincevamo sempre”

Redazione

5 Dicembre · 12:47

Aggiornamento: 5 Dicembre 2023 · 12:49

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Firenze, stadio Artemio Franchi, 5.01.2018, Fiorentina-Inter, Foto Fiorenzo Sernacchioli. Copyright Labaroviola.com Spalletti

Luciano Spalletti mi riceve nella sua casa di Montaione, vicino a Certaldo, in Toscana. È una grande tenuta, piena di verde, in cui Spalletti sembra sentirsi felice, disteso. Grandi spazi che si offrono dalle vetrate delle stanze, unità immobiliari destinate ad agriturismo, piscina e campi da padel e da tennis. Ci sono specie animali di ogni tipo: struzzi, alpaca, fagiani, germani, anatre, mucche, cavalli, asini, pavoni… E delle meravigliose vigne che producono dei vini che si chiamano «Contrasto», «Bordo campo», «Rosso diretto», «Tra le linee».

Mi fa visitare il suo regno — che a pranzo insieme ai suoi dipendenti sembra più una repubblica — con il legittimo orgoglio di chi nella vita ha faticato, non ha goduto di pole position o di regali da alcuno ed è stato premiato per il lavoro e i risultati. Per lui che «da ragazzo non avrebbe mai immaginato di essere al cospetto o persino di dirigere campioni eccezionali», questa vita è oggi insieme un sogno che si realizza e una sfida quotidiana. Ci mette tanta passione, tanto studio, tanta competenza, tanto rigore personale. Nella stanza dove siamo mi mostra tutti i quaderni nei quali ha appuntato idee e ricordi. Ne farà un libro, ha detto, per il quale ha un titolo che vale come senso della sua esperienza umana: «Il Paradiso esiste, ma quanta fatica…».

Se sulla strada per questo Paradiso incontrassi Luciano bambino, che consiglio gli daresti?
«Gli direi di prepararsi a un mondo in cui niente è mai scontato e tutto è possibile. Spesso mi chiedo se sarei disposto a rifare tutta la fatica della mia vita. La risposta è sì. Il bello del vissuto è lì dentro, in quella stanchezza, in quella testardaggine con la quale si cerca sempre di migliorare. Non da soli, con gli altri. La qualità della vita è il contatto con le persone e le situazioni, il mutare sempre restando sé stessi. Io ero un ragazzino che passava tutto il giorno al campetto, uno di quelli che bisognava chiamarlo dieci volte, quando faceva buio, perché salisse a casa, uno di quelli che i compiti li faceva la sera, perché prima di tutto c’era il pallone. Che è sempre stato il mio regalo preferito, da bambino. Anche se ne avevo tre o quattro, ne volevo sempre uno in più, dalla nonna. Avevo paura di restare senza».

Mi parli della tua famiglia?
«Mio padre era magazziniere, mia madre lavorava in una confezione. Nella nostra stanza c’erano due lettini, per me e mio fratello, e dei quadretti di calciatori, sul tavolo gli album delle figurine Panini. Li ho tutti».

Tuo fratello Marcello è stato importante per te.
«È stato tutto. E di più. Lui giocava al calcio, aveva visto che ero bravino ed era orgoglioso di me. Mi proteggeva e, insieme, mi spingeva sempre a migliorare. Se ne è andato anni fa, per un tumore. Ho sofferto molto».

La tua prima maglietta da calciatore?
«Io cominciai con le giovanili dell’Avane dove si perdeva sempre, poi proseguii con quelle della Fiorentina, dove si vinceva sempre. E, sinceramente, penso di avere imparato più dalla prima esperienza che dalla seconda. Essere sconfitti è importante, educa, insegna a migliorarsi, educa a vincere. Quella casacca giallonera mi è rimasta nel cuore».

Tu non eri considerato un personaggio facile. Ora, dopo la vittoria con il Napoli e la scelta della nazionale sei amato da tutti.
«Mah, io non sono uno di quegli allenatori che passano il tempo al telefono con i giornalisti e forse questo in passato mi ha alienato qualche consenso. Io faccio il mio lavoro e cerco risultati. Rispetto tutti e il lavoro di tutti. Però voglio che a parlare, per me, siano i risultati, non i sorrisi». Lo scrive il Corriere della Sera

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