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Ranieri Salvini, dalla Fiorentina alle baraccopoli in Sudafrica: “Sogno di costruire un campo da calcio”

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Ranieri Salvini, dalla Fiorentina alle baraccopoli in Sudafrica: “Sogno di costruire un campo da calcio”

Lisa Grelloni

8 Agosto · 17:22

Aggiornamento: 8 Agosto 2025 · 17:22

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“Kean impressionante già nell’Under 15. Ranieri mi aspettavo che sarebbe diventato un capitano ma non così forte”

Il calcio come mezzo potentissimo di integrazione e di inclusione sociale, è questa l’idea che ha guidato Ranieri Salvini, 26enne originario di Bagno a Ripoli (FI) ed ex calciatore delle giovanili della Fiorentina e dell’Empoli. Il suo sogno di rincorrere quel pallone sui campi più prestigiosi si è infranto, trasformandosi in qualcosa di molto più grande e profondo. Dalla Grecia, passando per il Brasile, fino al Sudafrica, Ranieri ha sempre con sé un oggetto prezioso, quel pallone. Da poco è uscito il suo libro ‘La via dello sport. Una storia nelle baraccopoli sudafricane’, che permette ai lettori di immergersi nell’esperienza da lui vissuta in Sudafrica, con la quale tenta di smuovere le coscienze.

Buonasera Ranieri, il tuo sogno era quello di diventare un calciatore: 9 anni nel vivaio della Fiorentina, qual è il ricordo più bello che custodisci?

“Per me è il ricordo di quando ero piccolo, mi viene in mente anche rivedendo ora i ragazzi più giovani al Viola Park, vedere bambini che vestono la maglia del loro cuore, l’emozione di quando andai allo stadio a ritirare l’abbigliamento che ci davano all’inizio della stagione. Aprire la borsa e vedere due maglie a maniche corte, due a maniche lunghe, la divisa di rappresentanza e tutte le cose viola, per me tifosissimo della Fiorentina da sempre, è sicuramente questo il ricordo più bello che ho, l’orgoglio di vestire la maglia, la gioia dei primi tornei in cui andavamo a dormire fuori, le prime volte da solo con tutta la squadra. Le esperienze da piccolo sono quelle che rammento con più piacere”.

C’è un calciatore oggi in Serie A che già aveva qualità fuori dalla norma quando giocavi nelle giovanili?

“In realtà tanti, ho avuto come compagni di squadra Luca Ranieri, Riccardo Sottil, Nicolò Zaniolo, Michele Cerofolini, Samuele Ricci. La mia annata, quella dei ’99, ha tanti talenti. Tornando alla Fiorentina ti dico che Moise Kean, da quando ha 14 anni gioca titolare con quelli del ’99, ’98 e ’97, ragazzi più grandi di lui (è un 2000). Prima faceva l’esterno poi si è strutturato sempre più fisicamente ed è diventato una punta, aveva una potenza fisica straripante ed era veramente immarcabile. Kean, Scamacca, Pinamonti, quando erano piccolini e ci giocavi contro, sapevi già che partivi 1-0 per gli altri. Poi ho giocato contro Gianluigi Donnarumma, Alessandro Bastoni, Davide Frattesi e Matteo Gabbia, sono tutti ’99, ragazzi super precoci, sempre titolari in nazionale, che hanno conquistato la titolarità con ragazzi più grandi di loro. Ma Kean era impressionante, dall’Under 15 ad oggi è sempre stato nelle nazionali e per me una grande promessa”.

Che ne pensi di Ranieri capitano (confermato anche da Pioli)? Te l’aspettavi che un giorno sarebbe arrivato ad essere un capitano?

“Un capitano sì, non mi sarei aspettato che sarebbe diventato così forte, in realtà è una cosa positiva perché vuol dire che non sempre basta solo il talento, per me è un giocatore che non ha delle qualità così eccelse ma è un calciatore che ha fatto delle sue letture e della sua intelligenza calcistica una dote immensa. A partire dai 19 anni è stato al Foggia, poi alla Spal, alla Salernitana, ovunque è andato ha giocato 35 partite l’anno. È un ragazzo affidabile, una persona intelligente, che dunque sa anche gestire il gruppo, quindi il ruolo di capitano gli si addice senza dubbio”.

Poi questo sogno di raggiungere il professionismo si è andato a spegnere man mano a causa degli infortuni, in quei mesi, quanto hai riflettuto su te stesso e… poi la scelta più dolorosa ma preludio ad una nuova e splendida avventura…

“Ho fatto quattro operazioni nel giro di due anni, prima alle anche e poi ad entrambe le ginocchia, sono stati anni durissimi in cui ho riflettuto tantissimo su me stesso e non è un caso che abbia deciso poi di iscrivermi a psicologia, per studiare un po’ anche il potere della mente sulla degenza, sugli infortuni e sulle prestazioni sportive. Il calcio per me è stata una cosa totalizzante, il momento degli infortuni è stata una fase in cui ho rimesso in discussione quello che volevo fare. Però quello che mi è scattato è ‘voglio investire in altro’, staccare un attimo con il calcio e vedere le cose della vita. Non mi sarei immaginato che poi quel calcio che io amavo e che mi aveva fatto imparare così tanto anche dal punto di vista educativo, sarebbe stato lo strumento che mi avrebbe permesso di fare le esperienze che ho fatto e di trovare lavoro con qualcosa che comunque mi fa utilizzare il pallone”.

Sappiamo che il calcio è un mezzo potentissimo, puoi raccontarci un po’ le tue prime esperienze? Come sei riuscito attraverso il calcio ad arrivare ai ragazzi delle baraccopoli?

“L’esperienza più forte, che mi ha cambiato tantissimo e che mi ha fatto acquisire la consapevolezza che avevo un mezzo potentissimo che era quello del calcio, fu in Grecia nel campo profughi di Corinto. Appena arrivato mi sono trovato in un contesto disastrato, difficile, e mi sono reso conto che il fatto che io toccassi il pallone così bene, che fossi così bravo a giocare a calcio, è un qualcosa di potente, la gente mi guardava con ammirazione, avevo un ruolo sociale da svolgere. Infatti è nata l’idea di utilizzare il calcio come mezzo di integrazione, ero in un contesto multietnico, in un campo profughi con afghani, siriani, curdi, senegalesi, nigeriani, congolesi, decisi a quel punto di organizzare attività insieme, come giocare a calcio. Da lì è nata una squadra, una partita di beneficienza in uno stadio e la presa di consapevolezza che avevo in mano uno strumento forte e l’avrei potuto utilizzare, quello dell’essere bravo e di conoscere il calcio”.

Puoi raccontarci la vita nella baraccopoli di Lwandle?

“Si parla di contesti che sono la condizione abitativa più disumana che possa esistere nel mondo, vivere in delle baracche per cui te non hai nemmeno un indirizzo di residenza e nessun tipo di accesso ai beni di prima necessità, ai servizi, dove le persone muoiono di fame, letteralmente. Ti può capitare di andare in giro per la strada e trovare persone morte in terra perché non esiste neanche un servizio funerario o di un’ambulanza che viene a prenderle. Sono aree circoscritte in 10-15 chilometri quadrati dove vivono 500/700mila o anche 1 milione di abitanti, che adesso si stanno sviluppando in tantissime parti del mondo. Io ho lavorato sia in Brasile che in Africa, quindi sono più esperto in queste aree, però esse si sono sviluppate ormai anche in altri Paesi. Se una persona muore di fame vuol dire che non ha assistenza sanitaria, non ha condizione igieniche, l’aspettativa di vita lì non supera i cinquant’anni. È il contesto più estremo che possa esistere e l’ho riassunto in modo piuttosto dettagliato nel libro che ho scritto”.

Com’è nata l’idea di scrivere il libro ‘La via dello sport. Una storia nelle baraccopoli sudafricane’, come verrà devoluto il ricavato?

“L’idea è nata dalla presa di consapevolezza che stessi vivendo un’esperienza veramente unica che pochissime persone probabilmente nella vita avranno modo di poter vivere. Quindi sentivo il dovere di raccontare perché attraverso il calcio sono arrivato a vivere come le persone nelle baraccopoli, e nella mia quotidianità scoprivo tante cose per me scioccanti e che non sapevo, così ho voluto cercare di condividerlo il più possibile. Quindi il libro nasce da questa esigenza emotiva di condivisione. Io non ho intenzione di lucrare sulla povertà di queste persone, ovviamente l’intero ricavato verrà devoluto in beneficienza insieme a delle donazioni, per i progetti nella comunità di cui parlo, quella di Lwandle. Lavoro nell’associazione We Football, con loro l’idea è quella di riuscire a fondare una scuola calcio, così da reinserire bambini e ragazzi attraverso il calcio in contesti accademici e lavorativi”.

Un sogno che custodisci nel cassetto?

“Il mio sogno più grande che sto cercando di coltivare, il quale è già avviato, è quello di costruire un campo da calcio. Perché quello che esso riesce a fare in questi contesti è fortissimo, è un salvavita, è un indirizzamento di vita, ed è quello che ho scritto nel capitolo del mio libro “Il valore del calcio” che spiega appunto approfonditamente quanto questo gioco può dare in questi contesti, in cui non esiste l’accessibilità neanche allo sport. Riuscire a costruire un campo da calcio sarebbe un sogno gigante che sto cercando di perseguire, ma a livello economico è molto difficile”.

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