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Dzeko: “Non sono ancora da buttare. Qui tutti hanno un sogno comune. Futuro? Mi fa paura”

Firenze, Viola Park, 25.07.2025, Fiorentina-Carrarese, foto Lisa Guglielmi. Copyright Labaroviola.com

Rassegna Stampa

Dzeko: “Non sono ancora da buttare. Qui tutti hanno un sogno comune. Futuro? Mi fa paura”

Redazione

2 Agosto · 09:43

Aggiornamento: 2 Agosto 2025 · 09:47

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"Concorrenza con Kean? Questo concetto è superato"

Dopo due anni trascorsi nuotando nel Bosforo, Edin Dzeko si è guardato intorno, è tornato in Italia e ha firmato con la Fiorentina, ecco le sue parole a Sportweek. «Che dite, ho scelto bene? Il club sogna in grande e il centro sportivo è tra i top 3 in Europa. Qui si sta alla grande». I rimpianti a tinte nerazzurre sono alle spalle, i sogni non si infrangono di fronte a una carta d’identità decisamente stropicciata. «Ho 39 anni, sì, ma mi sento davvero bene».

Bentornato Edin. Firenze è la scelta giusta? «Guardate il Viola Park, basterebbe quello per rispondere. Quando mi hanno informato dell’opportunità di venire qui, non ho neppure chiesto consigli ad amici ed ex compagni. Ho vissuto otto anni in Italia, so cosa rappresentano Firenze e la Fiorentina. Sulla città ho sentito tante cose belle, ma non ho ancora fatto in tempo a visitarla e a cercare casa. Certo, se il centro sportivo è questo… non mi dispiace dormire qui».

Il presidente Commisso sarà felice delle sue lusinghe. «Gli ho fatto i complimenti per le strutture che ha realizzato. Mi ha chiamato subito dopo la firma e mi ha stupito per il suo modo di fare. Ama la città e il club, ha investito tantissimo. Nel calcio di oggi è una rarità. Quanti presidenti sono ancora così attaccati alle loro squadre? Il suo sogno è lo stesso di chiunque lavori qui: una Fiorentina sempre più grande, si spera vincente».

Appena un anno fa raccontava che, dopo il ritiro, sarebbe tornato in Italia per vivere insieme alla sua famiglia. «Dovevo scegliere tra Roma e Milano… ma ora c’è Firenze. Vedremo, ormai in Italia mi sento a casa. I miei quattro figli sono nati qui, io e mia moglie stiamo bene».

Ci sarà qualcosa, però, che non le piace degli italiani. «So cosa mi piace: il cibo, la bellezza.
Ti guardi intorno ed è tutto stupendo. Quanto agli aspetti negativi, avrei bisogno di rifletterci… anzi no, ce l’ho: la gente a volte parla un po’ troppo. Chi vede il mio mestiere dall’esterno pensa che sia una pacchia, però non conosce gli sforzi che facciamo prima di andare in campo».

Guardiamo un paio di dati. Ventuno reti nel 2024/25, venticinque due anni fa. Nell’ultima stagione è stato il quarto giocatore più impiegato dal Fenerbahçe e… «…e tra club e nazionale ho giocato circa 60 partite. Sto bene, sì. Ma ho 39 anni, la carta d’identità non mente. Diciamo che non sono ancora da buttare, però per restare al passo devo lavorare molto più degli altri. Non siamo più ragazzini…».

Qual è l’elisir della giovinezza di Dzeko? «La cura di ogni dettaglio. Dopo che scendi in campo, recuperi più lentamente rispetto a dieci anni fa. Così nascono una serie di programmi di prevenzione: svolgo esercizi prima e dopo l’allenamento, sto attento all’alimentazione, cerco di riposare bene. Certo con quattro bambini a casa non è una passeggiata. Devo ringraziare mia moglie: quando si avvicinano le partite, lei si prende cura di loro e io dormo da solo».

Dopo un decennio di dibattiti sul falso nueve, quasi tutti sono tornati a giocare col centravanti. E il bomber “alla Dzeko” è quello che piace di più. Si sente un precursore? «Non ho inventato nulla, sono semplicemente fatto così. Spesso dall’esterno si valuta il rendimento di una punta guardando il numero di gol segnati, ma io mi diverto a giocare a calcio e non sopporto l’idea di restare fermo in area ad aspettare una palla-gol. Mi piace entrare nel gioco, mandare in porta i compagni. E devo dire grazie all’Italia: anche se sono arrivato qui a 29 anni, quasi tutto quello che so sul calcio l’ho imparato da voi».

Alla Fiorentina trova Kean, uno dei migliori nell’ultimo campionato. I dati dicono che lei – basti pensare al dualismo con Lukaku all’Inter – dà il meglio di sé quando deve lottare per una maglia da titolare. Giocare con calciatori forti è sempre un vantaggio, per i singoli e per la squadra. Il concetto di concorrenza è superato: tutti i club ambiziosi hanno una rosa di 22 titolari e alla fine gioca chi sta meglio. Una volta toccherà a me, un’altra a Moise, un’altra a entrambi. Lui viene da un anno pazzesco, gli auguro di confermarsi a quel livello. A Firenze, ovviamente».

Proviamo a riavvolgere il nastro: a Sarajevo, nei primi Anni Novanta, scappava dalle bombe e non poteva giocare a calcio all’aperto. Quanto c’è di quel bambino nell’Edin di oggi? «Quel contesto ti plasma, perché impari subito a non dare nulla per scontato. I miei genitori uscivano da casa per cercare cibo, io e mia sorella avevamo paura che non riuscissero a tornare. Non è stato semplice, ma oggi sono fiero della cultura del sacrificio che ho sviluppato. Tutto ciò che faccio è dedicato ai miei genitori, per me è fondamentale che siano orgogliosi di me. Il primo stipendio da calciatore l’ho usato per portarli fuori a pranzo insieme a mia sorella».

È passato un po’ di tempo da quando tirava i primi calci nei campetti a Sarajevo. A 39 anni riesce a scegliere la partita più emozionante della sua carriera? «Il primo ricordo è la rimonta col City contro il QPR, quando Aguero segnò il gol decisivo allo scadere e vincemmo la Premier. Roma-Barcellona, però, viene davanti a tutto. Non ci eravamo dati per sconfitti, ma dopo il 4-1 subìto all’andata le cose si erano messe male. Alla fine è bastato un gol: 1-0 per noi poco dopo il fischio d’inizio, l’Olimpico diventa una bolgia, la squadra si compatta e sprigiona un’energia pazzesca. Da lì in poi ci abbiamo creduto tutti».

E la finale di Champions contro il City? Credeva di vincere anche quella? «Quando arrivi in finale sei a un passo dall’obiettivo. Quindi sì, ci credi eccome. L ’Inter sfidava il City degli imbattibili, una squadra che sulla carta era ingiocabile ma che alla fine, durante la partita, non è riuscita a dominare

È il rimpianto più grande della sua carriera? «Io non rimpiango le scelte, perché il passato non si può cambiare. Ho fatto una grande carriera e ne vado orgoglioso. Certo, se devo scegliere una partita che mi ha lasciato l’amaro in bocca… penso al City e al Bologna».

Quel Bologna che infranse il sogno-scudetto dell’Inter nel 2022. Come l’avete vissuta dall’interno? «Quell’anno eravamo i più forti, ma abbiamo gestito male le energie. Abbiamo dato tutto in Champions senza arrivare in fondo, invece in campionato abbiamo sottovalutato gli avversari, che sono stati bravi ad approfittarne. Complimenti al Milan che ha vinto, però quell’anno l’Inter ha sprecato troppe chance».

Nel 2023 ha salutato l’Inter, che da lì in poi ha faticato a trovare delle alternative capaci di far rifiatare Lautaro e Thuram. Mentre segnava a raffica con il Fenerbahçe, non pensava a quanto avrebbe fatto comodo ai nerazzurri? «Sì, mi è passato per la testa tante volte. Non provo rancore: a Milano ho vissuto due anni stupendi, conosco l’ambiente e tanti ragazzi che giocano ancora lì. La società e l’allenatore hanno fatto determinate scelte, che li ha portati a vincere uno scudetto e a tornare in finale di Champions. Certo, magari con me sarebbe potuta andare ancora meglio…».

Adesso dall’Inter se n’è andato pure Inzaghi. Milan, Roma e Atalanta hanno cambiato allenatore, la Fiorentina riparte da Pioli. Che campionato si aspetta?

«La lotta per l’Europa sarà più equilibrata che mai. Ci sarà da divertirsi, soprattutto se l’Italia riuscirà a conquistare l’extra-slot per qualificare cinque squadre in Champions. Quanto allo scudetto, l’Inter rimane forte ma bisogna vedere che impatto avrà Chivu. I nerazzurri sono favoriti insieme al Napoli, che si sta muovendo benissimo sul mercato».

Parla quasi come un dirigente. Negli ultimi anni non ha mai pensato al ritiro? «Eh… (ride, ndr) Ogni tanto sì. In Turchia mi sono stati concessi 30 giorni liberi in due anni, è stato stressante. Ogni tanto ho voglia di staccare e godermi la famiglia, poi però l’amore per il calcio prende il sopravvento e spazza via ogni pensiero. Sento che sto ancora bene, che posso dare ancora tanto».

E dopo? «Anche se la gente dice che a 39 anni dovrei pensare al futuro, a me fa un po’ paura rifletterci adesso. Resterò nel calcio al 100%, ma è ancora presto per pensare con quale ruolo. Quando i giovani andranno al doppio della mia velocità, comincerò a farmi qualche domanda».

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