Una bolla. Un ritiro permanente. Una lunga quarantena. In cui i calciatori, e tutto il gruppo di una squadra di calcio, vivrebbero in «luoghi chiusi» per evitare qualsiasi rischio di contagio. Oggi, alle 10, la commissione torna a riunirsi, è arrivato il momento di tirare le somme. Il ritiro permanente è lo scudo con cui la macchina potrebbe rimettersi in moto. Il centro di allenamento sarebbe la «casa» dove ricominciare. Partendo con esami specifici, allenamenti individuali o di piccoli gruppi con rispetto della distanza interpersonale. Praticamente azzerando i rapporti con l’esterno. Una soluzione che naturalmente non riguarderebbe solo i calciatori, ma tutti coloro che fanno parte del «gruppo squadra»: tecnici, medici, fisioterapisti, magazzinieri. Una settantina di persone per ogni club. Che praticamente vivrà insieme almeno nella prima fase.
Rispetto a questo programma, però, ci sono almeno due problemi da affrontare. Il primo è la disponibilità dei test. Ed ecco il problema, sollevato anche in questa pagina dal direttore scientifico dell’istituto «Spallanzani»: il calciatore dovrà essere trattato allo stesso modo di un cittadino, fare i conti con i tamponi o i reagenti che ci sono, non avere trattamenti di favore. L’altro punto è proprio la disponibilità delle «case». La soluzione del ritiro permanente s’incaglia nel fatto che una metà dei club di A (e tutti quelli della B) non ha un centro di allenamento con foresteria. C’è quindi da cercare una soluzione non facile. Forse un protocollo alternativo. Lo riporta La Gazzetta dello Sport.